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Libro Primo. Dei reati in generale.[]

Il codice penale italiano vigente, detto Codice Rocco, sostituisce il Codice Zanardelli del 1889. Quest'ultimo si distingueva per il suo carattere liberale, contenendo istituti la cui disciplina era sensibilmente più moderata rispetto al successivo Codice Rocco, e prevedeva per molti reati di parte speciale pene generalmente più miti.

Il Codice Rocco, nella sua originaria stesura, pur costituendo il compromesso tra le varie correnti scientifiche e culturali dell'epoca, sì da risultare comunque garantista, si caraterizza per un'impronta autoritaria e repressiva, riflesso dell'ideologia fascista in cui venne alla luce. Tali caratteri traspaiono soprattutto nella parte speciale, dove comportamenti lesivi di interessi di marcato rilievo politico-statualistico sono sanzionati con pene generalmente elevate.

Tale rigorismo repressivo appare comunque evidente anche in alcuni istituti di parte generale, come la finzione di imputabilità nel caso di ubriachezza non accidentale, l'abolizione delle circostanze generiche, il modello di tipizzazione causale nel concorso di persone, l'introduzione della pena di morte.

In seguito alla caduta del fascismo, pur conservandosi l'impianto del Codice Rocco, è stata abolita la pena di morte e sono state reintrodotte modifiche in senso più libertario, come la scriminante della reazione legittima del cittadino agli atti arbitrari del pubblico ufficiale e le circostanze attenuanti generiche,

Una svolta fondamentale è venuta con l'avvento della Costituzione e dei suoi principi, e dalla Corte costituzionale, che è intervenuta ampliamente in applicazione degli stessi, soprattutto nella parte speciale, abolendo reati e gruppi di reati per i quali forte era il contrasto con l'ormai mutato scenario dei valori politici e sociali.

Superato il periodo della legislazione dell'emergenza, in cui, a causa del manifestarsi e dell'intensificarsi del fenomeno del terrorismo, si indebolirono i principi garantistici del nostro ordinamento per far fronte al pericolo dell'eversione democratica, il panorama legislativo attuale si snoda attraverso i due momenti della depenalizzazione e della decodificazione.

Mediante la depenalizzazione determinati fatti costituenti reato cessano di essere considerati tali, venendo assorbiti nella categoria degli illeciti amministrativi ed assoggettati ad una sanzione amministrativa.

Oggi si tende a razionalizzare ed ottimizzare il ricorso alla sanzione penale, intesa come extrema ratio, quale rimedio da adottare esclusivamente per le più gravi violazioni di legge e per la tutela di quei valori e di quei beni che non possono essere adeguatamente difesi altrimenti. Il legislatore è intervenuto più volte, da ultimo il decreto legislativo 507/99, pur rimanendo la legge 689/81 la legge base inmateria di depenalizzazione.

Il secondo momento è costituito dalla tendenza alla decodificazione, fenomeno già noto nel diritto civile, per il quale si assiste ad una crescente sproporzione tra reati collocati nel codice penale e reati previsti dalle leggi penali speciali o complementari. Tali reati sono il risultato delle nuove istanze di cui lo Stato si fa carico, intervenendo sempre più frequentemente a regolare fenomeni sociali di nuova emersione.

Articolo 1.[]

Nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge, nè con pene che non siano da essa stabilite.

Tale disposizione codifica il principio di legalità, il quale trova un presidio di natura costituzionale nell'articolo 25 comma 2. Tale principio è connaturale agli ordinamenti democratici, in quanto tutela l'individuo contro gli abusi dello Stato. Il potere di quest'ultimo deve sempre trovare fondamento nella legge. La preventiva minaccia della sanzione penale si raccorda con la funzione di prevenzione generale della pena: questa può distogliere gli individui dal porre in essere condotte penalmente rilevanti, operando in tal senso come deterrente psicologico. Corollario del principio di legalità è il principio di riserva di legge. In base ad esso è la legge l'unica fonte normativa in materia penale, con esclusione della normativa secondaria. Il problema è se la riserva di legge debba essere assoluta o relativa, se si possa cioè consentire che atti normativi secondari concorrano alla creazione della fattispecie penale. Per i sostenitori della riserva assoluta, il ricorso a fonti normative di grado inferiore alla legge comporterebbe un inaccettabile strappo alle esigenze di garanzia; per quelli della riserva relativa è possibile salvaguardare il principio di legalità purchè sia una legge dello Stato ad indicare, con sufficiente specificazione, i caratteri, il contenuto ed i limiti dei provvedimenti dell'autorità non legislativa. Si ammette comunemente un apporto regolamentare limitato ad accertamenti tecnici, puntualizzatore ed esecutore delle scelte politiche incriminatrici essenziali, che vengono comunque riservate alla legge. Negli stessi limiti la Corte costituzionale ha ritenuto legittime le cosiddette leggi penali in bianco, norme nelle quali la sanzione è prevista dalla legge, mentre il precetto è formulato in modo generico sì da dover essere integrato da atti normativi di grado inferiore.

L'orientamento prevalente ammette tra le fonti del diritto penale anche le leggi in senso materiale, cioè il decreto legislativo ed il decreto-legge.

Si tende ad escludere dal novero delle fonti di produzione del diritto penale la legge regionale, sul rilievo che un eventuale pluralismo di fonti regonali contrasterebbe con l'unità politica dello Stato e che è fatto divieto alla Regione di adottare provvedimenti limitativi dei diritti fondamentali dei cittadini.

è controverso se possa o meno costituire fonte diretta di diritto penale il diritto internazionale pubblico. Va ricordato che il Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato dall'ONU nel 1996 annoverano tra le fonti del diritto penale il diritto internazionale ed i principi generali di diritto riconosciuto dalle nazioni civili. In dottrina si tende ad escludere una diretta operatività della norma di diritto internazionale.

Nessuna funzione incriminatrice può assumere la consuetudine, mentre si discute se questa possa avere funzione scriminante.

La norma attua la previsione costituzionale di legalità-riserva di legge, accogliendo la concezione formale di legalità, per la quale reato è solo ciò che è previsto come tale dalla legge, anzichè quella sostanziale, per la quale è reato il fatto socialmente pericoloso, anche se non previsto dalla legge.

La dottrina ha suddiviso il principio di legalità in sottoprincipi. In particolare, quello di cui alla norma in esame tende a garantire i cittadini dagli abusi del potere esecutivo, al quale non è consentita l'emanazione di norme penali. Altro sottoprincipio è quello del divieto di retroattività della norma penale, che tende a garantire i cittadini dagli abusi del potere legislativo. I sottoprincipi di tassatività e di divieto di analogia garantiscono i cittadini dagli abusi del potere giudiziario.

Il principio di tassatività impone al legislatore di formulare la norma penale in modo preciso ed univoco.

Il divieto di analogia impedisce all'interprete di applicare ad un caso, non regolato dalla legge penale, la disciplina incriminatrice di un'altra fattispecie simile: si vuole cioè impedire che il giudice crei nuove figure di reato. Ciò spiega anche perchè il procedimento sia ammesso quando la regola da applicare analogicamente sia favorevole all'agente.

Articolo 2.[]

Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge dei tempi in cui fu commesso, non costituiva reato.

Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali.

Se vi è stata condanna a pena detentiva e la legge posteriore prevede esclusivamente la pena pecuniaria, la pena detentiva inflitta si converte immediatamente nella corrispondente pena pecuniaria, ai sensi dell'articolo 135.

Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.

Se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti.

Le disposizioni di questo articolo si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto - legge e nel caso di un decreto - legge convertito in legge con emendamenti.

Il primo comma di tale previsione costituisce attuazione legislativa del principio consacrato nell'articolo 25 comma 2 della Costituzione. Trattasi del principio di irretroattività della norma penale incriminatrice, uni dei principali corollari del principio di legalità, nonchè ampiamente accolto nei sistemi penali democratici, tant'è che ha avuto esplicito riconoscimento nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata dai Paesi membri del Consiglio d'Europa a Roma il 4 novembre 1950.

è abbastanza pacifico in dottrina che il principio non si applica alle norme processuali. Ne deriva che si deve far riferimento al principio generale del tempus regit actum, secondo cui la nuova disciplina processuale trova immediata applicazione nei procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore.

Tale affermazione di principio è stata ribadita dalle Sezioni Unite della Cassazione, le quali ritengono che esse debbano soggiacere al principio tempus regit actum, e non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall'articolo 2 del codice penale e dall'articolo 25 della Costituzione. Ad analoghe conclusioni è giunta la Corte, in merito al divieto di sospensione dell'esecuzione delle pene detentive brevi.

Dalle previsioni contenute nei commi successivi dell'articolo in esame si evince che il principio base che regola la successione delle leggi penali nel nostro ordinamento non sia quello dell'irretroattività ma quello del favor rei, che tende ad assicurare al soggetto il trattamento penale più mite tra quelli stabiliti dalla legge.

L'opinione dominante ritiene che il momento da prendere in considerazione per la commissione del reato, ai fini della successione di leggi penali nel tempo, sia quello della condotta, in quanto è in tale momento che il soggetto si pone contro il diritto.

Si tratta della nuova incriminazione alla quale si applica il principio dell'irretroattività della legge penale.

Vige l'irretroattività sia nell'ipotesi in cui la legge istituisca un nuovo titolo di reato, sia quando il mutamento degli elementi costitutivi di preesistenti fattispecie criminose rende punibili fatti che prima non lo erano.

La ratio della norma si ispira: al principio della massima tutela della libertà del cittadino, ciascuno, in ogni momento, deve avere la sicurezza di non subire in seguito sanzioni penali per gli atti che, solo in virtù di una legge successiva al loro verificarsi, costituiscono reato; ad un elementare principio di giustizia, sarebbe sommamente ingiusto punire fatti non vietati al momento del loro verificarsi; al principio della certezza del diritto.

La Cassazione ha puntualizzato che il principio di irretroattività della legge penale è operante nei riguardi delle norme incriminatrici ma non rispetto alle misure di sicurezza, sicchè tale misura può essere disposta anche in riferimento a reati commessi nel tempo in cui essa non era legislativamente prevista ovvero era diversamente disciplinata quanto a tipo, qualità e durata.

Si tratta dell'abolitio criminis, cui si applica il principio della retroattività della legge favorevole; sarebbe illogico continuare a punire l'autore per un fatto che l'ordinamento giuridico non ritiene più antisociale. In caso di abolitio criminis viene meno, oltre alla stessa condanna ed all'esecuzione della pena, ogni situazione capace di limitare o precludere facoltà o benefici al condannato.

Secondo l'opinione dominante ricade nel fenomeno in esame anche l'abolizione della norma integratice di una norma penale in bianco, mentre è controverso se si abbia abolitio criminis anche nel caso in cui muti un elemento normativo della fattispecie od una norma integrativa extragiuridica.

La Cassazione ha precisato che essa trova applicazione qualora la disposizione richiamata da una norma penale in bianco sia modificata od abrogata, ovvero nell'ipotesi in cui venga modificata una norma definitoria oppure nel caso in una disposizione legislativa commini una sanzione penale per la violazione di un precetto contenuto in un'altra disposizione legislativa, che venga abrogata in tutto od in parte.

La Corte ha affermato che sussiste abolitio criminis nel caso in cui ad essere abrogata sia la norma integratrice del precetto penale.

La medesima Corte ha avuto modo di precisare che l'istituto della successione delle leggi penali nel tempo riguarda le norme che definiscono la struttura essenziale e circostanziata del reato.

L'abrogazione di una norma di portata più specifica può fari riespandere altre norme di portata più generale che incriminano comunque il comportamento oggetto della norma abrogata.

Si è precisato in giurisprudenza che la revoca della sentenza di condanna per abolitio criminis non comporta il venir meno della natura di illecito civile del medesimo fatto.

Ha puntualizzato la Corte che, in caso di modifica della norma incriminatrice, per accertare se ricorra o meno abolitio criminis è sufficiente procedere al confronto strutturale tra le fattispecie legali astratte che si succedono nel tempo. Nella medesima pronuncia, la Corte ha affermato che, in caso di abrogazione di una norma incriminatrice, per accertare se le tipologie di fatti in essa comprese siano riconducibili ad altra disposizione generale preesistente, è necessario procedere al confronto strutturale tra le due fattispecie astratte, integrando all'occorrenza tale criterio attraverso una valutazione dei beni giuridici rispettivamente tutelati, al fine di verificare l'eventuale intenzione dell'intervento abrogativo di non attribuire più rilievo al disvalore insito nella fattispecie incriminatrice soppressa.

Il terzo comma è stato inserito ex articolo 14 della legge 24 febbraio 2006 numero 85. La modifica si inquadra nel novero di un complesso di correttivi arrecati dal legislatore del 2006, concernenti il corpus dei reati di opinione, riforma dettata dalla necessità di ovviare al fatto che molte di queste fattispecie mal si adattavano al mutato sistema di principi su cui si incardina l'attuale sistema democratico, sanzionando condotte riconducibili, in alcune configurazioni, all'esercizio di libertà costituzionalmente riconosciute e tutelate, quali la libertà di pensiero, di opinione, di associazione e che necessitavanodi una revisione che ne adeguasse la lettera ai principi di libertà e democrazia consacrati dalla Costituzione. Tale cambio di rotta nella risposta statuale alla commissione di questi crimini indusse i promotori della riforma a prevedere una norma transitoria, con la quale si disponeva che, ove eventuali condanne a pena detentiva, relative alle fattispecie rese successivamente punibili solo in via pecuniaria, prima della data di entrata in vigore della legge dovessero ancora essere eseguite alla medesima data. I fautori della riforma ebbero a fondare tale opzione sostenendo che non fosse congruo, per un fatto non più ritenuto dal legislatore così grave da giustificare la pena privativa della libertà personale, in ragione di una nuova valutazione concernente il disvalore oggettivo del fatto di reato, che l'autore del fatto medesimo continuasse ad essere privato della libertà, nel caso in cui la sentenza di condanna fosse passata in giudicato. Esaurito l'iter di approvazione della legge l'originaria disposizione transitoria creata ad hoc e destinata a trovare applicazione esclusivamente in relazione alle condanne concernenti i reati oggetto della riforma in commento, si è trasformata in una previsione di carattere generale.

La disposizione più favorevole non va individuata in astratto, confrontando le norme succedutesi nel tempo, in relazione alla loro astratta previsione legislativa, bensì in concreto, considerando tutte le conseguenze che deriverebbero dalla loro applicazione al caso specifico.

Nel determinare la disposizione più favorevole al reo non si può procedere ad una combinazione delle previsioni di favore della nuova legge con quelle della previgente, in quanto ciò comporterebbe la creazione di una terza legge, diversa sia da quella abrogata, sia da quella in vigore, ma occorre applicare integralmente quella delle due che risulti più vantaggiosa per il reo.

La medesima Corte ha precisato che la norma posteriore che abbia sostituito l'originaria comminatoria di pena detentiva congiunta a pena pecuniaria con quella della sola pena pecuniaria, deve essere sempre considerata più favorevole ai fini dell'articolo 2 comma 4 del codice penale.

Si è sostenuto in giurisprudenza che il principio di retroattività della legge può favorevole trova applicazione anche nel caso in cui il fenomeno successorio riguardi norme integratrici della norma penale, nel cui novero rientrano quelle che intervengano nell'area di rilevanza penale di un fatto umano, escludendola, riducendola o comunque modificandola in senso migliorativo per l'agente.

Più di recente, la Corte ha puntualizzato che deve ritenersi inapplicabile il principio previsto dall'articolo 2 comma 3 del codice penale, qualora si tratti di modifiche della disciplina integratrice della fattispecie penale che non incidano sulla struttura essenziale del reato, ma comportano esclusivamente una variazione del contenuto del precetto delineando la portata del comando.

Le Sezioni Unite della Cassazione hanno sostenuto che in tema di successione di leggi penali, la modificazione della norma extrapenale richiamata dalla disposizione incriminatrice esclude la punibilità del fatto precedentemente commesso se tale norma è integratrice di quella penale oppure ha essa stessa efficacia retroattiva. Nel caso specifico, oggetto del suo esame la Corte ha ritenuto che l'adesione della Romania all'Unione europea, con il conseguente acquisto da parte dei rumeni della condizione di cittadini europei, non ha determinato la non punibilità del reato di ingiustificata inosservanza dell'ordine del questore di allontanamento dal territorio dello Srato commesso dagli stessi prima del 1° gennaio 2007.

La retroattività in melius trova applicazione in relazione alle disposizioni che prevedono pene accessorie.

Si tratta della successione di leggi modificative, ove la successione di leggi, anzichè creare od abolire, modifica incriminazioni precedenti; la nuova disposizione se è sfavorevole, non si applica retroattivamente al fatto commesso precedente; troverà applicazione nell'ipotesi in cui risulti essere più favorevole al reo.

Secondo un primo criterio di natura sostanziale elaborato dalla dottrina tedesca, il problema può essere risolto verificando se tra la norma anteriore e quella successiva esista una continuità nel tipo di illecito, ossia un'identità del bene protetto e delle modalità di aggressione dello stesso.

Più rigoroso e più rispettoso del principio di irretroattività della legge penale incriminatrice è il criterio di natura formale che fa leva sull'esistenza o meno di un rapporto di continenza. Fra le due fattispecie si ha modificazione quando la nuova legge penale contempla una fattispecie di portata più specifica rispetto a quella precedente.

Secondo autorevole dottrina è possibile riconoscere una modificazione anche nell'ipotesi inversa, che ricorre quando una fattispecie di portata generale succede ad una fattispecie di portata più specifica.

La Costituzione repubblicana, innovando rispetto all'ordinamento previgente, ha sancito che il principio della caducazione retroattiva del decreto legge non convertito con la conseguenza di escludere, in tali casi, la configurazione di una successione di leggi penali nel tempo

Corollario del principio di legalità sotto il profilo della validità della legge penale nel tempo è il principio di irretroattività della legge penale. Oltre che a livello codicistico, esso ha ricevuto espresso riconoscimento nel testo costituzionale.

Articolo 3.[]

La legge penale italiana obbliga tutti coloro che, cittadini o stranieri, si trovano nel territorio dello Stato, salve le eccezioni stabilite dal diritto pubblico interno o dal diritto internazionale.

La legge penale italiana obbliga altresì tutti coloro che, cittadini o stranieri si trovano all'estero, ma limitatamente ai casi stabiliti dalla legge medesima o dal diritto internazionale.

La nozione penale di cittadini è contenuta nell'articolo 4 comma 1, da tale norma è possibile desumere a contrario anche la nozione di stranieri.

Le eccezioni cui si riferisce la norma in esame sono qualificate come immunità penali esi identificano con un complesso di situazioni tra loro diverse il cui effetto comune è la sottrazione di un soggetto all'applicazione della sanzione penale. In relazione all'oggetto di tale immunità si suole distinguere tra quelle a carattere assoluto che comprendono qualunque reato commesso dal titolare, senza distinzione tra attività compiuta nell'esercizio della funzione ed attività extrafunzionale e quelle a carattere relativo che operano per i soli reati commessi in constanza di carica.

Le immunità assolute, inoltre, impediscono l'applicazione della pena e di ogni altra conseguenza penale anche dopo il cessato esercizio della funzione.

In relazione all'efficacia si suole, invece, distinguere tra immunità sostanziali e processuali: le prime riguardano, di regola, l'attività funzionale ed escludono definitivamente la punibilità per atti compiuti, le opinioni espresse ed i voti dati nell'esercizio di funzioni; le seconde attengono all'attività extrafunzionale e consistono nella frapposizione di ostacoli o di limiti all'esercizio del potere giurisdizionale nei confronti dei soggetti immuni.

Infine, quanto alle fonti delle immunità, la norma in esame fa riferimento al diritto pubblico interno e quello internazionale. Le immunità derivanti dal diritto pubblico interno si fondano espressamente sull'esigenza di proteggere e garantire quei soggetti che esercitano funzioni od assumono uffici di pubblico interesse.

La norma in esame regola l'ambito di efficacia personale della legge penale. Il problema principale che essa pone concerne l'individuazione del rapporto intercorrente tra il principio di obbligatorietà e le eccezioni cui la norma stessa fa riferimento. Una parte della dottrina ritiene che queste ultime costituiscano un vero e proprio limite al principio di obbligatorietà nel senso che le persone che ne godono devono considerarsi sottratte all'efficacia obbligatoria della norma penale.

La tesi in esame è però rigettata dalla dottrina prevalente, secondo la quale è da escludere che nel nostro ordinamento esistano soggetti legibus soluti sicchè anche coloro i quali godono di immunità sono tenuti ad osservare la legge penale.

Secondo un diverso orientamento le immunità si inseriscono tra le cause di giustificazione, con la conseguenza che il fatto commesso dall'immune è da considerare lecito ab origine.

La dottrina prevalente identifica nelle immunità delle cause personali di esclusione della pena, cioè delle situazioni particolari in presenza delle quali, pur sussistendo l'illiceità penale del fatto, è esclusa l'applicazione della sanzione per ragioni di opportunità.

Le principali conseguenze applicative di tale impostazione sono la configurabilità della legittima difesa e la non estensibilità delle cause in esame ai concorrenti non beneficianti dell'immunità.

Articolo 4.[]

Agli effetti della legge penale, sono considerati cittadini italiani, gli appartenenti per origine o per elezione ai luoghi soggetti alla sovranità dello Stato e gli apolidi residenti nel territorio dello Stato,

Agli effetti della legge penale, è territorio dello Stato il territorio della Repubblica ed ogni altro luogo soggetto alla sovranità dello Stato. Le navi e gli aeromobili italiani sono considerati come territorio dello Stato, ovunque si trovino, salvo che siano soggetti, secondo il diritto internazionale, ad una legge territoriale straniera.

Il territorio dello Stato è costituito dalla superficie terrestre compresa entro i confini politico - geograficidello Stato; dal mare territoriale; dallo spazio aereo sovrastante.

L'equiparazione delle navi e degli aeromobili al territorio dello Stato costituisce una funzione giuridica che trova applicazione esclusivamente nelle ipotesi in cui si trovano in alto mare ovvero si tratti di fatti che non producano alcuna conseguenza nei confronti dello Stato rivierasco.

In giurisprudenza si afferma che, in caso di perpetrazione di reato su nave mercantile che si trovi nelle acqui territoriali di altro Stato, prevale la giurisdizione dello Stato di bandiera allorchè l'illecito concerna esclusivamente le attività e gli interessi della comunità nazionale cui appartiene il natante, mentre prevale quella dello Stato costiero ove le conseguenze del fatto compiuto a bordo si ripercuotano o siano idonee a ripercuotersi all'esterno incidendo su interessi primari della comunità territoriale. Tali interessi vanno valutati con riferimento non solo al bene giuridico tutelato dalla norma di cui si assume la violazione, ma anche alla situazione verificatasi in concreto che diviene rilevante per lo Stato costiero allorquando per le sue connotazioni realizzi una condizione di effettivo pericolo che, rendendo probabile l'offesa per la pace pubblica del Paese o per il buon ordine del mare territoriale, imponga l'intervento dello Stato costiero.

Articolo 5.[]

Nessuno può invocare a propria scusa l'ignoranza della legge penale.

La norma in esame è stata oggetto di profonde critiche da parte della dottrina. Essa, nella sua formulazione originaria escludeva in via assoluta che l'ignoranza (cioè assenza di rappresentazione di una data realtà) ovvero l'errore (cioè divergenza tra rappresentazione soggettiva e realtà oggettiva) in relazione alla legge penale potessero essere causa di esclusione della responsabilità penale. Senonchè, una soluzione così rigorosa in ordine al problema della coscienza dell'antigiuridicità del fatto, cioè la consapevolezza del disvalore penale della propria condotta, è apparsa in contrasto col principio di colpevolezza sancito nell'articolo 27 della Costituzione, soprattutto dove si acceda ad una concezione normativa della colpevolezza intesa come rimproverabilità del soggetto per l'atteggiamento antidoveroso della volontà.

L'inadeguatezza dell'articolo 5 è stata avvertita oltre che dalla dottrina, dalla giurisprudenza, che attraverso il ricorso al principio della buona fede in materia contravvenzionale, vi ha apportato dei temperamenti in via interpretativa. Ed, infatti, limitatamente ai reati contravvenzionali si è riconosciuta efficacia scusante all'ignorantia legis ogni qualvolta questa fosse determinata da circostanze estrinseche capaci di suscitare nel soggetto il convincimento della liceità del comportamento tenuto.

La norma in esame (sia pure con i temperamenti introdotti dalla Corte costituzionale) accoglie il principio di origine romanistica secondo cui ignorantia legis non excusat. Diverso è tuttavia, il fondamento di tale principio delle moderne codificazioni: la sua ratio originaria era, infatti, ravvisata in una presunzione di conoscenza della legge da parte dei soggetti facenti parte di una determinata comunità. Oggi una tale presunzione è del tutto illusoria posta l'enorme produzione e variabilità della legge. Ecco perchè il fondamento del principio in esame è stato ravvisato essenzialmente in esigenza di natura politica quali l'affermazione dell'incondizionata prevalenza della legge e degli interessi pubblici da essa rappresentati, rispetto ad una più puntuale valutazione delle condizioni personali che ne abbiano accompagnato la violazione.

Alla luce dell'intervento correttivo della Corte costituzionale potrebbe giungere ad una revisione anche del fondamento dell'articolo 5 del codice penale: posta la rilevanza della possibilità di conoscenza della legge penale, la base della norma può essere oggi ravvisata nel dovere di conoscenza della legge, quale dovere strumentale rispetto al dovere primario di osservanza della legge stessa.

Articolo 6.[]

Chiunque commette un reato nel territorio dello Stato è punito secondo la legge italiana.

Il reato si considera commesso nel territorio dello Stato, quando l'azione o l'omissione, che lo costituisce, è ivi avvenuta in tutto od in parte, ovvero si è ivi verificato l'evento che è la conseguenza dell'azione od omissione.

è discusso se la "parte" di azione realizzata nel territorio dello Stato, per essere rilevante, debba integrare gli estremi del tentativo, ed essere, quindi, connotata dall'idoneità ed univocità a realizzare il reato. La soluzione positiva è sostenuta da una parte della dottrina in base alla considerazione che prima della soglia del tentativo vi versa ancora nell'area del penalmente irrilevante. La dottrina e la giurisprudenza dominanti propendono, invece, per la soluzione negativa sostenendo che, nel nostro ordinamento, il legislatore ha accolto la teoria dell'ubiquità, per cui il reato si considera commesso nel territorio dello Stato quando l'azione o l'omissione che lo costituiscono è ivi avvenuto in tutto od in parte ovvero se si è ivi verificato l'evento. Ne consegue che a questo fine è sufficiente che sia avvenuta nel territorio dello Stato anche una minima parte dell'azione o dell'omissione, anche se priva dei requisiti per il tentativo.

Da tale impostazione discendono importanti conseguenze in tema di reato abituale e di reato permanente: essi si considerano commessi nel territorio dello Stato anche quando si è qui realizzato, nel primo caso, una sola delle condotte che lo costituiscono, nel secondo, una minima parte della condotta criminale.

Quanto al reato continuato che abbia avuto inizio in Italia e sia proseguito all'estero, l'opinione dominante è nel senso di escludere l'applicazione della legge italiana a quelle condotte esecutive del medesimo disegno criminoso poste in essere fuori dal territorio nazi poichè per esse viene a mancare l'interesse dello Stato italiano alla repressione.

Per l'individuazione del locus commissi delicti la dottrina ha elaborato tre fondamentali teorie: quella della condotta, secondo la quale il reato deve considerarsi commesso nel luogo di realizzazione della condotta criminosa; quella dell'evento secondo cui il luogo di realizzazione dell'evento; e quella dell'ubiquità, accolta dal legislatore del 1930 e consacrata nell'articolo in esame, secondo il quale il reato si considera commesso tanto nel luogo in cui si è svolta la condotta, tando in quello in cui si è verificato l'evento. Per la giurisprudenza, il criterio dell'ubiquità si applica altresì quando l'azione sia avvenuta in minima parte oppure questa abbia avuto forma omissiva.

Anche in materia di reato associativo o di concorso di persone nel reato, la teoria dell'ubiquità fa ritenere commesso nel territorio dello Stato il reato che sia attuato all'estero ed al quale abbia partecipato altra persona nel territorio italiano, o viceversa. Per il caso del reato concorsuale, la Cassazione ha precisatoche, perchè possa ritenersi estesa la potestà punitiva dello Stato a tutti i compartecpi ed a tutta l'attività criminosa, ovunque realizzata, è sufficiente che in Italia sia stata posta in essere una qualsiasi attività di partecipazione ad opera di uno qualsiasi dei concorrenti, a nulla rilevando che tale attività parziale non rivesta in sè carattere di illiceità, dovendo essa essere intesa come frammento di un unico iter delittuoso da considerarsi come inscindibile.

La norma individua l'ambito spaziale di efficacia della legge penale italiana.

Articolo 7.[]

è punito secondo la legge italiana il cittadino o lo straniero che commette in territorio estero taluno dei seguenti reati:

- delitti contro la personalità dello Stato italiano;

- delitti di contraffazione del sigillo dello Stato e di uso di tale sigillo contraffatto;

- delitti di falsità in monete aventi corso legale nel territorio dello Stato o di valori di bollo od in carte di pubblico credito italiano;

- delitti commessi da pubblici ufficiali a servizio dello Stato, abusando dei poteri o violando i doveri inerenti alle loro funzioni;

- ogni altro reato per il quale speciali disposizioni di legge o convenzioni internazionali stabiliscono l'applicabilità della legge penale italiana.

In relazione ai delitti indicati nel quarto punto non è necessario un rapporto stabile di servizio con la Pubblica Amministrazione, ben potendo rientrare nella previsione normativa anche lo svolgimento di compiti temporanei e/o una missione occasionale.

La norma in esame introduce la prima deroga al principio di territorialità sancito nell'articolo 6. Tale deroga si ispira al principio di difesa per le ipotesi contemplate nei numeri 1 - 4 in quanto rende applicabile la legge dello Stato cui appartengono i beni offesi; l'ipotesi contempla nel numero 5 ha invece natura composita: essa si ispira principalmente al principio di universalità in quanto consente di applicare la legge italiana ai delitti che interessano tutte le nazioni; talvolta, però, la deroga si fonda sul rispetto del principio di difesa, o su motivi di mera opportunità.

Articolo 8.[]

Il cittadino o lo straniero, che commette in territorio estero un delitto politico non compreso tra quelli indicati nel numero 1 dell'articolo precedente, è punito secondo la legge italiana, a richiesta del Ministro della giustizia.

Se si tratta di delitto punibile a querela della persona offesa, occorre, oltre tale richiesta, anche la querela.

Agli effetti della legge penale, è delitto politico ogni delitto, che offende un interesse politico dello Stato, ovvero un diritto politico del cittadino. è altresì considerato delitto politico il delitto comune determinato, in tutto od in parte, da motivi politici.

Si tratta del delitto oggettivamente politico in quanto fondato sulla natura del bene interesse leso che si identifica con un interesse politico dello Stato od un diritto politico del cittadino.

Quanto ai delitti del primo tipo, la dottrina dominante ha chiarito che l'offesa deve riguardare un interesse che è proprio dello Stato complessivamente considerato, che attiene cioè alla sua vita ed alla sua essenza unitaria. Rientrano perciò nella categoria in esame i delitti contro la personalità dello Stato e qualunque altro delitto previsto in leggi speciali offensivo di un interesse politico dello Stato nel senso sopra chiarito. Esulano da tale ambito i delitti che offendano gli interessi dello Stato come potere amministrativo o come potere giudiziario.

I delitti oggettivamente politici del secondo tipo sono quelli che offendono il diritto del cittadino di partecipare alla vita dello Stato e di contribuire alla formazione della sua volontà.

Si tratta poi del delitto soggettivamente politico in quanto fondato sul motivo che spinge il reo a delinquere. La dottrina prevalente distingue il motivo politico da quello sociale: il primo ricorre nei casi in cui il delitto è compiuto in funzione della particolare concezione ideologica dell'agente in relazione alla struttura dei poteri dello Stato ed ai rapporti tra Stato e cittadino; il secondo è quello che determina la condotta dell'agente in funzione di una visione dei rapporti umani che non si riflette necessariamente sulla struttura dello stato o sui rapporti intercorrenti tra Stato e cittadino.

La norma introduce una deroga al principio di territorialità ispirata al principio della difesa.

Il legislatore del 1930 ha accolto una nozione assai ampia di delitto politico in linea con l'ideologia dell'epoca tesa a reprimere ogni forma di ribellione nei confronti dell'ordine costituito. Con l'avvento della Costituzione repubblicana si è avuto un'inversione di tendenza tanto che il delitto politico è stato da essa sottoposto ad un regime di favore.

Articolo 9.[]

Il cittadino, che, fuori dei casi indicati nei due articoli precedenti, commette in territorio estero un delitto per il quale la legge italiana stabilisce l'ergastolo, o la reclusione non inferiore nel minimo a tre anni, è punito secondo la legge medesima, sempre che si trovi nel territorio dello Stato.

Se si tratta di delitto per il quale è stabilita una pena restrittiva della libertà personale di minore durata, il colpevole è punito a richiesta del Ministro della giustizia ovvero ad istanza od a querela della persona offesa.

Nei casi preveduti dalle disposizioni precedenti, qualora si tratti di delitto commesso a danno delle Comunità europee, di uno Stato estero o di uno straniero, il colpevole è punito a richiesta del Ministro della giustizia, sempre che l'estradizione di lui non sia stata conceduta, ovvero non sia stata accettata dal Governo dello Stato in cui egli ha commesso il delitto.

In deroga al principio di territorialità, è assoggettato alla legge penale italiana il cittadino che commetta all'estero un reato per il quale sia prevista la sanzione indicata nella norma. L'applicabilità della sanzione è sottoposta alla condizione obiettiva di punibilità della presenza del cittadino nel territorio dello Stato. A tale proposito si discute sulla natura di condizione di procedibilità o di punibilità della presenza del cittadini.

Per la giurisprudenza, si tratta di una condizione di procedibilità da cui consegue che l'interesse dello Stato a perseguire il reato sussiste soltanto se il reo si sia soffermato non per breve tempo in Italia. Conseguenza di ciò è che l'imputato prosciolto per difetto della condizione di procedibilità può essere di nuovo sottoposto a procedimento penale se tale condizione si verifichi.

Il terzo capoverso della norma determina qualche dubbio interpretativo in ordine alle tre condizioni di procedibilità in esso previste. Secondo un diffuso orientamento è necessaria la richiesta del Ministero della giustizia quando si tratti di reato che offende un interesse dello Stato o della collettività; è invece necessaria l'istanza o la querela, quando venga offeso un interesse di cui è portatore il singolo.

Secondo un diverso orientamento vi è piena equivalenza tra richiesta ed istanza, ma se il reato è perseguibile a querela della persona offesa, questa deve concorrente con la richiesta del Ministero.

è controverso se nell'ipotesi prevista dal comma 3 della norma sia necessario di preventivo esperimento con esito negativo della procedura di estradizione. Una parte della giurisprudenza propende per la soluzione negativo, ritenendo sufficiente che l'estradizione non abbia trovato attuazione; un diverso orientamento giurisprudenziale afferma invece la necessità del preventivo esperimento della procedura di estradizione.

Anche la norma in esame, come le due precedenti, introduce una deroga al principio di territorialità. Incerta è però la ratio di tale deroga: taluni autori invocano il principio di personalità secondo il quale si applica la legge dello Stato cui appartiene il reo; altri autori invocano il principio di difesa per l'ipotesi in cui sia offeso lo Stato od un cittadino italiano; quello di universalità per l'ipotesi in cui sia offeso uno Stato od un cittadino straniero.

è discusso se per l'operatività della deroga ivi prevista sia necessario il rispetto del principio della doppia incriminazione secondo cui il fatto commesso deve costituire reato non solo per lo Stato italiano ma anche per quello straniero.

Articolo 10. []

Lo straniero, che fuori dei casi indicati negli articoli 7 e 8, commette in territorio estero, a danno dello Stato o di un cittadino, un delitto per il quale la legge italiana stabilisce l'ergastolo o la reclusione non inferiore nel minimo ad un anno, è punito secondo la legge medesima, sempre che si trovi nel territorio dello Stato, e vi sia richiesta del Ministro della giustizia, ovvero istanza o querela della persona offesa.

Se il delitto è commesso a danno delle Comunità europee, di uno Stato estero o di uno straniero, il colpevole è punito secondo la legge italiana, a richiesta del Ministro della giustizia, sempre che:

- si trovi nel territorio dello Stato;

- si tratti di delitto per il quale è stabilita la pena dell'ergastolo ovvero della reclusione non inferiore nel minimo a tre anni;

- l'estradizione di lui non sia stata conceduta, ovvero non sia stata accettata dal Governo dello Stato in cui egli ha commesso il delitto, o da quello dello Stato a cui egli appartiene.

Si considerano commessi a danno dello Stato i reati che offendano un interesse pubblico od economico dello Stato od un interesse relativo alla pubblica amministrazione.

La norma pone le medesime questioni esaminate in relazione all'articolo 9, alla cui analisi, pertanto, si rinvia.

Articolo 11. []

Nel caso indicato nell'articolo 6, il cittadino o lo straniero è giudicato nello Stato, anche se sia stato giudicato all'estero.

Nei casi indicati negli articoli 7, 8, 9 e 10 il cittadino o lo straniero, che sia stato giudicato all'estero, è giudicato nuovamente nello Stato, qualora il Ministero della giustizia ne faccia richiesta.

Il comma 1 della norma risponde all'esigenza di garantire in ogni caso l'applicazione della legge italiana con riferimento ai reati realizzati nel territorio della Repubblica, conformemente al principio di territorialità sancito nell'articolo 6. Sul punto è stata sollevata una questione di legittimità costituzionalità in relazione all'articolo 10 comma 1 della Costituzione. La Corte Costituzionale ha ritenuto infondata la questione in base alla considerazione che il principio del ne bis in idem (divieto del doppio giudizio per il medesimo fatto) non può essere considerato norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta.

Per i fatti commessi fuori dal territorio dello Stato (comma 2) l'esigenza di garantire l'applicazione della legge italiana è meno imperiosa ed è perciò sottoposta ad una preventiva valutazione politica che si estrinseca nella richiesta del Ministero della giustizia. In ogni caso, la pena scontata all'estero è sempre computata e detratta da quella irrogata in Italia.

Articolo 12.[]

Alla sentenza penale straniera pronunciata per un delitto può essere dato riconoscimento:

- per stabilire la recidiva od un altro effetto penale della condanna, ovvero per dichiarare l'abitualità o la professionalità nel reato o la tendenza a delinquere;

- quando la condanna imporrebbe, secondo la legge italiana, una pena accessoria;

- quando, secondo la legge italiana, si dovrebbe sottoporre la persona condannata o prosciolta, che si trova nel territorio dello Stato, a misure di sicurezza personali;

- quando la sentenza straniera porta condanna alle restituzioni od al risarcimento del danno, ovvero dove, comunque, esser fatta valere in giudizio nel territorio dello Stato, agli effetti delle restituzioni o del risarcimento del danno, od ad altri effetti civili.

Per farsi luogo al riconoscimento, la sentenza deve essere stata pronunciata dall'autorità giudiziaria di uno Stato estero col quale esista trattato di estradizione. Se questo non esiste, la sentenza estera può essere egualmente ammessa a riconoscimento nello Stato, qualora il Ministero della giustizia ne faccia richiesta. Tale richiesta non occorre se viene fatta istanza per il risarcimento agli effetti indicati nel numero 4.

Quanto ai rapporti tra riconoscimento ed amnistia è da sottolineare che il riconoscimento è ammissibile solo in relazione ad una sentenza di condanna per un delitto sottoposto nel nostro Stato od in quello estero ad amnistia che lasci sussistere gli effetti penali. Il riconoscimento di una sentenza penale straniera non richiede il prodursi di effetti concreti e prescinde dall'attuale pendenza di un procedimento.

Oltre che nella norma in esame le condizioni ed i presupposti del riconoscimento sono previsti negli articoli 730 e 732 del codice di procedura penale.

Regola generale dell'ordinamento penale italiano è quella dell'ineseguibilità delle sentenze penali straniere nel nostro Stato.

A tale regola è tuttavia possibile derogare per uno dei fini secondari previsti tassativamente nella norma in esame e rispondenti per lo più all'esigenza di meglio adeguare il diritto penale italiano alla personalità etico - criminologica del delinquente.

In ogni caso, il principio di ineseguibilità dei giudicati penali stranieri ha subito delle attenuazioni per effetto di convenzioni internazionali.

Articolo 13.[]

L'estradizione è regolata dalla legge penale italiana, dalle convenzioni e dagli usi internazionali.

L'estradizione non è ammessa, se il fatto che forma oggetto della domanda di estradizione, non è preveduto come reato dalla legge italiana e dalla legge straniera.

L'estradizione può essere conceduta od offerta, anche per reati non preveduti nelle convenzioni internazionali, perchè queste non ne facciano espresso divieto.

Non è ammessa l'estradizione del cittadino, salvo che sia espressamente consentita nelle convenzioni internazionali.

L'estradizione è regolata da alcuni principi fondamentali formatisi attraverso la prassi internazionale e spesso recepiti anche dal diritto interno. Primo fra tutti è il principio della doppia incriminazione, espressamente riconosciuto dal capoverso della norma in esame: esso non esige che il fatto posto in essere idall'estradando sia indicato con lo stesso nomen iuris dell'ordinamento dei due Stati. è dubbio se l'estradizione possa essere concessa oltre che per i delitti anche per le contravvenzioni.

è altresì discusso se, ai fini dell'estradizione, debba ricorrere la punibilità in astratto od in concreto del fatto presso i due Stati. La soluzione del problema ha una notevole rilevanza pratica: coloro i quali ritengono determinnte la punibilità in concreto escludono l'estradabilità dell'individuo nei casi in cui uno dei due Stati si sia verificata una causa di giustificazione, di esclusione della colpevolezza o di non punibilità.

Quanto alle cause di estinzione del reato, prevale l'opinione secondo cui l'estradizione è esclusa quando la causa estintiva riguardi lo Stato richiedente, mentre è ammissibile quando riguardi quello richiesto.

Altro principio regolatore dell'istituto in esame è quello di specialità: espressamente riconosciuto negli articoli 699 e 721 del codice di procedura penale, sia per l'estradizione passiva che per quella attiva, esso esclude che si possa procedere contro l'estradato per fatti anteriori diversi da quello per il quale l'estradizione è stata specificamente concessa od applicare misure diverse da quelle cui il provvedimento stesso inerisce. La regola della specialità non va intesa come limita all'esercizio della giurisdizione per fatti anteriori e diversi, ma solo come limite alla coercizione personale dell'astradato.

Il principio di sussidiarietà, riconosciuto nell'articolo 705 del codice di procedura penale, si fonda sulla priorità della giurisdizione dello Stato di rifugio in quanto gli consente di rifiutare l'estradizione quando sia possibile iniziare o sia pendente un procedimento penale ovvero sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.

Non ha valore assoluto il principio del ne bis in idem che mira a garantire l'unità della punizione per un medesimo fatto anche sul piano del diritto internazionale.

L'estradizione è sottoposta ad alcuni limiti in relazione al soggetto che deve essere estradato, al tipo di reato per cui l'estradizione è richiesta, ed infine, al tipo di pena che può essere applicata nello Stato richiedente o ricevente.

Quanto al primo limite, esso si sostanzia nel divieto di estradizione del soggetto che rivesta la qualità di cittadino. Esso è riconosciuto anche nel testo costituzionale all'articolo 26.

Ulteriore limite all'estradizione si rinviene negli articoli 10 e 26 della Costituzione, i quali sanciscono il divieto di estradizione dello stradiniero e del cittadino per i reati politici.

L'estradizione può essere esclusa per reati puniti dallo Stato richiedente o ricevente con la pena di morte, in quanto l'articolo 27 della Costituzione, pone il divieto assoluto del ricorso a tale sanzione.

L'istituto dell'estradizione risponde all'esigenza di garantire una collaborazione tra gli Stati nella lotta contro la criminalità.

Articolo 14. []

Quando la legge penale fa dipendere un effetto giuridico dal decorso del tempo, per il computo di questo si osserva il calendario comune.

Ogni qual volta la legge penale stabilisce un termine per il verificarsi di un effetto giuridico, il giorno della decorrenza non è computato nel termine.

è discusso se tra gli effetti giuridici rientri anche la determinazione dell'età di un soggetto. In dottrina e giurisprudenza prevale la soluzione negativa in forza della quale il calcolo dell'età deve avvenire alla stregua del computo naturale secondo la disciplina ed i principi propri del diritto civile.

In giurisprudenza si afferma che la scadenza di un termine stabilito a mesi si verifica nel giorno corrispondente a quello in cui è iniziata la decorrenza, secondo il calendario comune, indipendentemente dal numero dei giorni di cui è composto il singolo mese.

Il comma 1 della norma rappresenta una novità rispetto al codice Zanardelli: questo, infatti, stabiliva la durata convenzionale dei mesi e dei giorni (rispettivamente 30 giorni e 24 ore), rinviando al calendario comune solo per il computo dell'anno. Oggi, invece, con il rinvio generale al calendario comune si evita la formazione di un calendario penitenziario diverso da quello comune.

Articolo 15. []

Quando più leggi penali o più disposizioni della medesima legge penale regolano la stessa materia, la legge o la disposizione di legge speciale deroga alla legge od alla disposizione di legge generale, salvo che sia altrimenti stabilito.

La norma in esame individua il criterio fondamentale del concorso apparente di norme. Tale fenomeno, che ricorre quando due o più norme sembrano a prima vista applicabil ad uno stesso fatto mentre una soltanto deve essere applicata, va tenuto distinto dal fenomeno del concorso di reati, ed, in particolare, dal concorso formale eterogeneo, che ricorre quando il soggetto viola, con un solo atto, due o più disposizioni di legge che risultano perciò tutte applicabili a suo carico anche se, ai fini del trattamento sanzionatorio, trova applicazione il più benevolo regime del cumulo giuridico.

Il fondamento dell'articolo 15, e più in generale di tutto il fenomeno del concorso apparente di norme, si rinviene nel principio del ne bis in idem sostanziale che vieta di addossare più volte lo stesso fatto all'autore.

Articolo 16. []

Le disposizioni di questo codice si applicano anche alle materie regolate da altre leggi penali, in quanto non sia da queste stabilito altrimenti.

Con una disposizione conforme a quella dell'articolo 10 del codice penale abrogato, nel prevedere un'altra ipotesi di fondamentale importanza concernente la materia dei rapporti fra il codice penale e le leggi particolari, riconferma il principio che nei rapporti fra il codice penale, come legge generale, e le leggi speciali, le disposizioni del primo si applicano anche alle materie regolate dalle seconde, in quanto non sia da queste diversamente stabilito. Normalmente, infatti, le leggi particolari si limitano a contemplare nuove figure di reato con riferimento a particolari interessi da tutelare, svolgendo, quindi, funzione integratrice del codice penale, cui resta affidato il compito di provvedere alla tutela degli interessi generali e dei più rilevanti fra quelli a carattere particolare. Stante il predetto scopo integrativo assegnato alle leggi particolari, ne deriva come conseguenza che il codice penale resta la legge fondamentale chiamata a fornire all'applicazione delle leggi particolari i necessari principi.

Articolo 17. []

Le pene principali stabilite per i delitti sono: la morte, l'ergastolo, la reclusione, la multa.

Le pene principali stabilite per le contravvenzioni sono: l'arresto, l'ammenda.

La Corte Costituzionale, con sentenza 28 aprile 1994, numero 168 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di tale articolo nella parte in cui non esclude l'applicazione della pena dell'ergastolo al minore imputabile.

La pena capitale fu abolita dal Codice Zanardelli, ma fu ripristinata dal Codice vigente solo per i delitti più gravi.

La pena di morte è stata soppressa con conseguente assorbimento nell'ergastolo, dapprima per i delitti preveduti dal codice penale e poi per i delitti previsti dalle leggi speciali.

La norma può essere considerata l'unica guida per determinare la natura di un illecito sanzionato con pena pecuniaria, nonchè per distinguere i delitti dalle contravvenzioni.

Per il caso in cui il legislatore, da un lato individui la pena con il nomen iuris di una sanzione prevista dall'articolo 17, e dall'altro qualifichi come contravventore l'autore dell'illecito, la Cassazione considera prevalente il criterio distintivo offerto dalla sanzione.

Articolo 18. []

Sotto la denominazione di pene detentive o restrittive della libertà personale la legge comprende: l'ergastolo, la reclusione e l'arresto.

Sotto la denominazione di pene pecuniarie la legge comprende: la multa e l'ammenda.

Fra tali pene devono ora ritenersi incluse anche la semidetenzione e la libertà controllata previste dagli articoli 53 e seguenti della legge 24 novembre 1981 numero 689.

Mentre l'articolo 17 distingue le sanzioni derivanti dalla commissione di delitti da quelle previste per le contravvenzioni, il presente articolo raggruppa le pene principali in base al bene colpito che, per le pene detentive, è la libertà personale, mentre per le pene pecuniarie è il patrimonio. Ovviamente la pena detentiva deve considerarsi sempre più grave di quella pecuniaria, indipendentemente dall'entità dell'una o dell'altra.

Il novero delle pene princpali comprende, altresì, le sanzioni applicabili dal giudice di pace, in relazione alla commissione di reati attribuiti alla sua competenza previste dagli articoli 52 e seguenti del decreto legislativo 28 agosto 2000 numero 274.

Articolo 19. []

Le pene accessorie per i delitti sono: l'interdizione dai pubblici uffici; l'inderdizione da una professione o da un'arte; l'interdizione legale; l'interdizione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese; l'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione; l'estinzione del rapporto di impiego o di lavoro; la decadenza o la sospensione dall'esercizio della potestà dei genitori.

Le pene accessorie per le contravvenzioni sono: la sospensione dall'esercizio di una professione o di un'arte; la sospensione dagli uffici direttivi delle persone giuridiche e delle imprese.

Pena accessoria comune ai delitti ed alle contravvenzioni è la pubblicazione della sentenza penale di condanna.

La legge penale determina gli altri casi in cui le pene accessorie stabilite per i delitti sono comuni alle contravvenzioni.

In materia di depenalizzazione, la legge 205/99 ha delegato il Governo a provvedere alla trasformazione in sanzioni amministrative accessorie delle pene accessorie già previste per i reati depenalizzti, anche introducendo nuove sanzioni accessorie proporzionate alla gravità delle diverse fattispecie.

L'elenco delle pene accessorie, contenuto nella norma in esame, è stato in parte modificato dalla legge 689/81.

L'elenco contenuto nell'articolo 19 ha carattere tassativo, restando operante nella sfera delle pene accessorie previste dalla legislazione speciale.

Articolo 20. []

Le pene principali sono inflitte dal giudice con sentenza di condanna; quelle accessorie conseguono di diritto alla condanna, come effetti penali di essa.

Le pene accessorie conseguono di diritto alla sentenza di condanna e tale automaticità comporta, limitatamente ad esso la non obbligatorietà della motivazione.

Al contrario, il giudice potrebbe discrezionalmente decidere per la non applicazione di una pena accessoria.

Ai fini dell'applicazione di una sanzione accessoria, si deve avere riguardo alla pena principale irrogata in concreto, come risultante a seguito della diminuzione effettuata sia per l'applicazione delle circostanze attenuanti che per la scelta del rito.

Quesito dibattuto in dottrina è l'applicabilità o meno delle pene accessorie nel caso di condanna per delitto tentato, in considerazione del carattere autonomo della fattispecie tentata. La Corte di Cassazione le ritiene applicabili in quanto la legge si riferisce alla figura generale del reato, che ne comprende le diverse gradazioni in tutta la manifestazione del disegno criminoso, dal tentativo punibile al conseguimento del fine.

La norma va posta in relazione con l'articolo 37: una volta fissato il principio di automatismo nell'applicazione delle pene accessorie, il legislatore ha dovuto prevedere criteri automatici di quantificazione della durata delle pene accessorie. Il principio è che le pene accessorie abbiano durata corrispondente a quella della pena principale inflitta, salvo che la loro durata sia espressamente determinata.

Articolo 21. []

Pena di morte.

Vedi articolo 17.

Articolo 22. []

La pena dell'ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli istituti a ciò destinati, con l'obbligo del lavoro e con l'isolamento notturno.

Il condannato all'ergastolo può essere ammesso al lavoro all'aperto.

Il testo originario parlava di Stabilimenti.

La Corte costituzionale, con sentenza 28 aprile 1994, numero 168, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di tale articolo nella parte in cui non esclude l'applicazione della pena dell'ergastolo al minore imputabile.

Si è discusso sulla conciliabilità dell'ergastolo con la funzione rieducativa e quindi della sua opportunità politico - criminale. In effetti, con l'estensione ad esso della libertà condizionale, l'ergastolo non è più in concreto perpetuo, e quindi anch'esso tende alla rieducazione del condannato.

Infine, di fronte al moltiplicarsi di reati gravissimi ed alla conseguente richiesta di difesa sociale, è sembrato preferibile soprassedere alla soppressione dell'ergastolo per non indebolire l'apparato intimidatorio.

Articolo 23.[]

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'Articolo 90'.[]

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Articolo 180. []

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Articolo 190. []

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Articolo 192. []

Articolo 193. []

Articolo 194. []

Articolo 195. []

Articolo 196. []

Articolo 197. []

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Articolo 204. []

Articolo 205. []

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Articolo 217. []

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Articolo 219.[]

Articolo 220. []

Articolo 221. []

Articolo 222. []

Articolo 223. []

Articolo 224. []

Articolo 225. []

Articolo 226. []

Articolo 227. []

Articolo 228. []

Articolo 229.[]

Articolo 230. []

Articolo 231. []

Articolo 232. []

Articolo 233. []

Articolo 234. []

Articolo 235. []

Articolo 236. []

Articolo 237. []

Articolo 238. []

Articolo 239.[]

Articolo 240.[]

Libro secondo. Dei delitti in particolare.[]

Il secondo libro del codice costituisce, insieme al terzo, la parte speciale del diritto penale. Essa è strutturata in un complesso di norme che descrive le figure criminose.

La previsione precisa e dettagliata dei diversi fatti costituenti reato è conforme al principio di legalità sancito dall'articolo 1 e consacrato nell'articolo 25 della Costituzione. è bene precisare che l'elencazione contenuta in questo libro si presenta tutt'altro che esaustiva: numerose altre figure di illecito penale sono contenute in leggi speciali che si pongono in una posizione di complementarietà rispetto al codice penale. Nella classificazione dei singoli reati, il legislatore del 1930 ha precisato il criterio dell'oggettività giuridica in forza del quale si procede ad un raggruppamento delle diverse figure criminose sulla base del bene giuridico protetto. Ne è derivata l'individuazione dei seguenti titoli di reato: delitti contro la personalità dello Stato; delitti contro la pubblica amministrazione; delitti contro l'amministrazione della giustizia; delitti contro il sentimento religioso e la pietà dei defunti; delitti contro l'ordine pubblico; delitti contro l'incolumità pubblica; delitti contro la fede pubblica; delitti contro l'economia pubblica, l'industria ed il commercio; delitti contro la moralità pubblica ed il buon costume; delitti contro l'integrità e la sanità della stirpe; delitti contro la famiglia; delitti contro la persona; delitti contro il patrimonio.

A tale classificazione vanno aggiunti i delitti contro il sentimento per gli anumali, titolo collocato dopo quello relativo ai delitti contro la moralità pubblica della legge 20 luglio 2004 numero 189.

Occorre precisare che anche la classificazione in esame presenta dei limiti: da un lato, infatti, vi sono dei reati la cui oggettività giuridica si presenta sfumata; dall'altro vi sono dei reati che presentao un'oggettività giuridica plurima in quanto suscettibili di offendere più interessi di diversa spece.

Quanto alla tecnica di tipizzazione legislativa delle singole figure di reato è da sottolineare un elevato grado di frammentazione casistica che ha generato due diversi ordini di problemi: innanzitutto il pericolo di lacune e la sovrapposizione di diverse figure di reato difficilmente distinguibili le une dalle altre.

A ciò si aggiunga l'ulteriore rischio di uno scarto tra tipicità formale ed offensività che ricorre ogniqualvolta la descrizione delle modalità aggressive del bene si presenta inadeguata a garantire l'esistenza di una lesione o di un'esposizione a pericolo del bene-interesse tutelato.

Libro Terzo. Delle contravvenzioni in particolare.[]

Il terzo libro del codice penale è dedicato all'esame delle contravvenzioni ed è suddiviso in tre Titoli, di cui il primo, il più ampio, dedicato all'esame delle contravvenzioni di polizia, il secondo, di soli quattro articoli, all'esame delle contravvenzioni concernenti l'attività sociale della Pubblica Amministrazione ed il terzo, denominato secondo bis, dedicato alle contravvenzioni concernenti la tutela della riservatezza, comprensivo di un unico articolo.

Il titolo primo, a sua volta è suddiviso in due Capi.

La contravvenzione è una delle due categorie di reati, insieme ai delitti.

La dottrina si è a lungo interrogata sulla possibilità di individuare criteri distintivi sostanziali tra i delitti e le contravvenzioni, importanti soprattutto per i reati previsti da leggi speciali, per i quali non può soccorrere il criterio della collocazione codicistica. Deve registrarsi il fallimento di tali tentativi.

Allo stesso modo l'orientamento per il quale i delitti producono lesioni giuridiche mentre le contravvenzioni semplicemente costituiscono un pericolo per l'altrui diritto o per il pubblico bene, non offre un criterio certo, perchè se ciò è vero in generale, esistono pure contravvenzioni che costituiscono reati di danno e delitti di mero pericolo.

A critiche di indeterminatezza e genericità si prestano infine gli ulteriori criteri discretivi. Così la dottrina prevalente tende ad escludere l'esistenza di una reale differenza ontologica tra le due categorie di reato ed afferma che la qualificazione del reato come delitto o contravvenzione dipende esclusivamente da una scelta di politica criminale operata dal legislatore che si concreta nella previsione di una diversa sanzione penale.

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